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20-11-00

ESCLUSIVO / INCHIESTA - I traffici di rifiuti e armi, i misteri della
Somalia, il ruolo dell’alta finanza

«Gli affari sporchi delle facce pulite»

di BARBARA CARAZZOLO, ALBERTO CHIARA E LUCIANO SCALETTARI


    Finalmente un testimone. Gianpiero Sebri è stato parte attiva di
un’organizzazione che ha gestito traffici illeciti in Europa, nei Caraibi e
in Africa. Poi, ha rotto con quel mondo. Il suo racconto, oggetto di
un’indagine della Procura antimafia di Milano, squarcia il velo della
disinvolta ipocrisia che caratterizza certi esponenti dell’economia che
conta, specie se iscritti alla loggia giusta. Gente che ha casa a
Montecarlo, uffici in Italia e in Svizzera, società in Irlanda e conti
bancari un po’ ovunque. Gente per la quale «non si tratta di rifiuti o di
armi, ma semplicemente di affari». Che – per i più poveri tra i poveri – si
traducono in malattia, guerra, morte. In questa intervista esclusiva, Sebri
getta luce sulla ragnatela che lega politici, massoni, mafiosi,
imprenditori, Servizi segreti. Connessioni individuate anche dalla
Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti. E sull’omicidio Alpi,
Sebri rivela che...

«La scena era raccapricciante: da quei 15 container squarciatisi cadendo giù
dalla collina, non lontano dalla capitale Port au Prince, erano uscite
decine di fusti. Alcuni erano stati aperti, forse a picconate. Ne era colato
un liquame scuro, dall’odore nauseante, un odore così forte che si sentiva
fino a 300 metri di distanza. L’avvocato che mi aveva accompagnato sul luogo
disse che lo scarico era avvenuto sette giorni prima. Ma purtroppo non avevo
ancora visto tutto».

Parla, Gianpiero Sebri. Racconta tutta d’un fiato la sua verità. Sebri ha 48
anni: è stato portaborse di Luciano Spada (tra i principali "elemosinieri"
del Psi), e a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta ha curato in prima
persona diversi traffici di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi nei Paesi
del Terzo mondo. «Ho già parlato con il sostituto procuratore dell’Antimafia
di Milano, Maurizio Romanelli». Le sue dichiarazioni hanno riempito 22
verbali.

«Tornammo a Port au Prince e andammo all’ospedale», riprende. «C’era una
folla di persone in attesa, soprattutto donne e bambini. Si lamentavano. I
bambini avevano la faccia e le braccia piene di grosse croste e bolle,
simili a quelle provocate dalle ustioni. Alcune donne perdevano sangue, come
se stessero abortendo. La scena era straziante. L’avvocato mi fissò, irato:
"Guarda che io sono haitiano, questo spettacolo non lo dovevo vedere, non
era nei patti". Solo in seguito Bizzio mi spiegò che gli accordi erano
diversi. I rifiuti, infatti, dovevano essere interrati e coperti da colate
di cemento. Una parte dei rifiuti, invece, era stata buttata in mare e
un’altra scaricata senza nessuna precauzione. La nave, inoltre, trasportava
anche un carico di armi. Ricordo il nome dell’imbarcazione: Vulcano».

Nickolas Bizzio è un miliardario poco noto al grande pubblico, ma molto
influente nel mondo degli affari. Nato a Piacenza nell’agosto 1936, ha
origini italiane, passaporto americano e residenza nel Principato di Monaco.
Salì agli onori della cronaca un paio d’anni fa per aver tentato la scalata
alla Buffetti insieme alla Banca del Gottardo. Quando si sposta in Svizzera
o in Italia, dove cura diversi affari attraverso una nutrita schiera di
società, usa spesso l’elicottero. A Grasse, in Francia, ha una villa con
parco e piscina. Massone dichiarato, amico di molti potenti (dà del tu a
Vittorio Emanuele di Savoia e frequenta casa Grimaldi), opera anche nel
campo dello smaltimento dei rifiuti. L’ultima società in ordine di tempo è
la Spi (Società progettazioni integrate, Srl): l’ha costituita il 16
novembre 1999 e l’ha iscritta alla Camera di commercio di Milano il 4
febbraio di quest’anno. La ragione sociale è un diluvio di parole, ma quel
che conta è una riga, verso il fondo: «Discariche, cave, piani di
smaltimento rifiuti». Di rifiuti, in realtà, Bizzio si occupa da tempo. Si è
vantato lui stesso: «Io in questo campo ci sono da anni, sono stato uno dei
primissimi».

POLITICA, MAFIA E MASSONERIA

La vicenda di Sebri inizia nel 1984: entra nel "gruppo" (così chiama
l’organizzazione di chi commercia in armi e rifiuti) come uomo di Luciano
Spada. Il ruolo del faccendiere socialista è di curare – in Italia – i
rapporti tra mondo politico, massoneria, imprenditoria e ambienti mafiosi,
soprattutto la n’drangheta calabrese. Dice Sebri: «Sopra Spada c’era Bizzio,
ieri come oggi capo indiscusso per le sue forti entrature internazionali e
per le sue conoscenze importanti, anche se "pericolose", come possono essere
quelle con i trafficanti internazionali Monser Al Kassar e Khassogi. Bizzio
appartiene alla Loggia di Montecarlo. Al Mec, ovvero al Comitato esecutivo
massonico, attribuisce il potere di aprire tutte le porte. L’organizzazione
ha sempre fatto capo a lui».

«Quello che stanno facendo in Mozambico e che hanno fatto ad Haiti, a Porto
Rico, in Somalia, in Liberia, in Guinea e in Marocco, al confine tra la
Polonia e la Russia, è una vera porcheria», insiste Sebri. L’instabilità
politica, il conflitto, la dittatura, la povertà sono le condizioni ideali
per trasformare un Paese in una pattumiera. Armi, denaro e corruzione in
cambio della discarica: il meccanismo è sempre lo stesso.

«Quelle immagini di Haiti mi hanno perseguitato per anni», racconta Sebri,
«ma c’è stato un altro episodio che ha turbato a lungo la mia coscienza,
spingendomi infine ad andare dal magistrato: l’omicidio di Ilaria Alpi e
Miran Hrovatin. Anche loro sono vittime dei traffici di armi e rifiuti. Il
gruppo, in Somalia, ne ha fatte di tutti i colori...».

Procediamo con ordine. Chi è lei?
«Sono nato a Casorate, in provincia di Pavia, il 16 ottobre 1952. Da giovane
ho militato nel Movimento lavoratori per il socialismo. Ho poi ricoperto
incarichi sindacali nella Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici).
Quindi, per cinque anni, ho lavorato per Spada».

Che compiti aveva?
«Ero un suo portaborse. Lo accompagnavo durante gli spostamenti in Italia,
lo aiutavo nel tenere i contatti, consegnavo la corrispondenza delicata. O
andavo all’estero per organizzare le operazioni di traffico, come avvenne a
Santo Domingo e Haiti: dovevo ottenere le autorizzazioni all’importazione
dei rifiuti tossico-nocivi. Allora era più facile di oggi, c’erano leggi
meno restrittive e minori controlli. Tra l’87 e l’88 rimasi per lunghi
periodi nei due Paesi centroamericani».

L’affare fu portato a termine?
«Sì. Oltre ai rifiuti portarono un’ingente quantità di armi. Dopo pochi
mesi, ad Haiti vi fu un colpo di Stato contro l’allora presidente Lesly
Manigat. Non so se c’è correlazione. So che Bizzio se ne vantava, perché è
orgoglioso di dichiararsi "nemico della democrazia"».

Vide personalmente l’arrivo delle navi o i bidoni scaricati?
«Non in quella prima operazione, anche se so che andò a buon fine. Ne seguii
direttamente altre due, a Porto Rico alla fine del 1988 e ad Haiti nel 1990,
poco dopo la morte di Spada. In entrambi i casi i rifiuti tossico-nocivi
erano di provenienza americana. Ed era solo Bizzio a trattare con gli Stati
Uniti. Così, ad esempio con la Us Navy, la Marina militare, che aveva grossi
quantitativi di materiale inquinante da smaltire, morchie di verniciatura,
soprattutto».

Cosa vide a Porto Rico?
«Scaricarono lungo la costa, in un’insenatura. Il terreno era coperto per
centinaia di metri da fusti di grosse dimensioni, di colore grigio scuro,
buttati qua e là alla rinfusa. Molti bidoni erano stati aperti, ne uscivano
pietre di colore bluastro, miste a materiale fosforescente, sembravano
cristalli luminosi. I bidoni erano stati scaricati dai camion lungo una
scarpata. Molti erano rotolati fino alla battigia».

Per chi ha lavorato dopo la morte di Spada (1989)?
«Per Nickolas Bizzio».

Ebbe notizia di altre "operazioni"?
«Sì. In Guinea, ad esempio: Bizzio si vantava di quell’affare, perché
sosteneva che era stato il primo realizzato in Africa. Quand’ero nella
Repubblica Dominicana, poi, fui avvisato di uno scarico in mare, al largo
della costa di Las Terrenas. Si trattava di più navi. Seppi poi che vi
furono conseguenze sulla pesca. In Inghilterra furono seppelliti rifiuti
molto pericolosi nelle miniere abbandonate del Nord. Spada mi citò, inoltre,
il caso di rifiuti americani trasportati via nave in Italia e da qui fatti
proseguire via terra fino al confine tra Polonia e Russia, dove sono stati
interrati. L’operazione più importante, denominata "Progetto Urano", doveva
però essere quella avviata nel 1987. Prevedeva l’invio di ingenti quantità
di rifiuti – principalmente americani – in un immenso cratere naturale che
si trova nel Sahara spagnolo».

L’OMBRA DEI SERVIZI SEGRETI

Il progetto fu attuato?
«Sì. L’operazione comportava di fatto la consapevole complicità dell’Ats
(Amministrazione territoriale del Sahara). Si trattava, inizialmente, di
convogliare nel cratere rifiuti di aziende e delle amministrazioni militari
degli Stati Uniti. Dell’organizzazione facevano parte, oltre a Spada e
Bizzio, il segretario di quest’ultimo Alfredo Del Po, la società armatrice
"Odino Valperga" di Genova, Guido Garelli (rappresentante dell’Ats, ndr) e
altri personaggi minori. Spada sosteneva che il Governo italiano vi era
coinvolto ad altissimi livelli. Io posso solo testimoniare che Spada aveva
rapporti quasi quotidiani con i socialisti che contavano: Forte, De
Michelis, Martelli e lo stesso Craxi. Spada era la longa manus socialista
nella gestione del settore rifiuti e della cooperazione».

Che cosa avvenne?
«"Urano" fu pianificato a lungo. Ma non si arrivava mai all’accordo. Perciò
fu chiamato in causa un altissimo esponente del Sisde (Servizio segreto
civile italiano, ndr), che io vidi per la prima volta in una riunione a
Lugano, in Svizzera».

Chi era?
«Preferisco non fare il nome. L’incontro decisivo avvenne a Parigi. Vi
parteciparono due rappresentanti del Regno del Marocco, due del Fronte del
Polisario (i ribelli che controllano il territorio dell’Ats e che combattono
per l’autonomia dal Marocco), noi e un uomo del Sisde. Gli accordi furono
raggiunti. Di lì a poco furono firmati i contratti a Lugano. Partì la prima
nave e si iniziò a scaricare. Poi andò tutto a monte: i marocchini si resero
conto che il Fronte del Polisario stava per ottenere in cambio cospicue
partite di armi, tali da renderlo pericoloso. Tra l’altro, proprio in quel
periodo, Guido Garelli – l’uomo dell’Ats – fu arrestato a Brindisi. Quando
lo seppe, Spada se ne andò per una settimana all’estero. Durante la sua
assenza il suo ufficio fu perquisito».

La nave dove finì?
«Proseguì per la Somalia, dove vuotò il resto del carico. Là avevamo
un’organizzazione già pronta a gestire lo smaltimento: c’era Giancarlo
Marocchino, un uomo di Spada. In tutti i Paesi dove l’organizzazione opera
c’è un "logista" che gestisce in loco le operazioni».

Ha mai conosciuto Marocchino?
«Nella seconda metà degli anni Ottanta, ho assistito a un incontro fra lui e
Spada a Milano, vicino alla Rinascente. In quell’occasione, Marocchino parlò
di un generale che andava sistemato con qualche milionata. Poi lamentò il
fatto che gli uomini dei Servizi segreti erano inaffidabili, oltreché esosi.
Quell’episodio avvenne fra il 1987 e il 1988».

Incontrò altre volte Marocchino?
«Sì, nell’autunno del ’93, sempre a Milano, in zona Arena. Fui invitato
all’incontro da un avvocato milanese, che avevo conosciuto a Santo Domingo.
L’avvocato, però, non partecipò alla riunione, alla quale erano invece
presenti, oltre a Marocchino e a me, anche un colonnello dell’Esercito e
un’altra persona».

Chi era il militare?
«Si è presentato con nome e cognome. Ma non li faccio. Li potrei dire al
magistrato competente solo dopo aver ottenuto adeguata protezione».

Teme per la sua vita?
«Ho appreso che il militare che incontrai è un alto funzionario dei Servizi
segreti italiani...».

Di quale: Sisde o Sismi?
«Preferisco non aggiungere altro...».

Torniamo all’incontro dell’autunno ’93...
«È durato oltre mezz’ora. Gli americani avevano appena espulso Giancarlo
Marocchino dalla Somalia: lo accusavano di trafficare in armi. Lui era molto
arrabbiato e, per sua stessa ammissione, si trovava in gravi difficoltà
economiche. Affermava di aver completato l’operazione legata al "Progetto
Urano" e di aver onorato gli accordi presi con quello che era il gruppo di
Spada. Ricordo che in quell’incontro, in cui parlò soprattutto Marocchino,
si discusse in particolar modo di pagamenti che tardavano e di patti che non
erano stati rispettati. "Io ho fatto tutto quanto dovevo", sosteneva
Marocchino. "Anche noi abbiamo fatto il nostro lavoro", ribatteva l’uomo dei
Servizi. Ma si capiva che gli affari avevano preso una brutta piega. "È
colpa di Pillitteri (Paolo, allora presidente della Camera di commercio
italo-somala, ndr), che si è messo in testa di agire in proprio. Così
facendo ha irritato i libici e gli stessi somali. Non è stato ai patti. Ha
ricevuto i soldi per i lavori svolti, ma non li ha ripartiti secondo quanto
stabilito", incalzava Marocchino».


Gianpiero Sebri nel corso dell’intervista con i nostri inviati.
Sebri, 48 anni, è nato a Casorate, in provincia di Pavia.
Ha lavorato per molti anni nell’organizzazione che gestiva
numerosi traffici illegali di rifiuti e armi in diversi Paesi.

«LA GIORNALISTA È SISTEMATA»

In che cosa consistevano questi lavori?
«Lo stesso Marocchino riferì esplicitamente che gli affari in questione
consistevano in traffici di armi e di rifiuti tossici e sottolineò che lui
aveva annotato con pignoleria tutte le operazioni svolte, nonché le spese
sostenute. Marocchino si proclamava creditore. Esigeva il pagamento di
quanto pattuito. Non voleva diventare capro espiatorio di una situazione che
stava precipitando, viste la crescente irritazione dei somali e dei libici e
l’impossibilità da parte dei Servizi segreti di continuare a coprire
l’intera vicenda, con gli americani che premevano. L’uomo dei Servizi disse
che avrebbe sistemato le cose che lo riguardavano, e Marocchino di rimando:
"Guarda che siamo sulla stessa barca, se affonda affoghiamo tutti"».

Ebbe modo di rivedere l’uomo dei Servizi?
«Sì, circa sei mesi dopo, nella primavera del ’94».

Dove?
«Nel centro di Milano, in zona Duomo».

C’era ancora Giancarlo Marocchino?
«No, c’era però la stessa persona che vidi con il colonnello la volta
precedente. L’uomo dei Servizi fece riferimento ai miei vecchi, stretti
rapporti con Luciano Spada: voleva che mi recassi in Somalia. Non ho capito
che cosa avrei dovuto fare laggiù. Disse, comunque, che le cose, in Somalia,
erano state sistemate e io pensai che si riferisse alla questione dei soldi.
Lui, invece, affermò: "Chi sgarra, paga. L’importante è che ciascuno faccia
bene il proprio lavoro. Abbiamo sistemato anche quella giornalista
comunista". Ilaria Alpi era stata da poco uccisa a Mogadiscio...».

Fece mai esplicitamente il nome di Ilaria?
«No, mai. Così come non pronunciò mai il nome di Nickolas Bizzio».

Quanti rifiuti finirono in Somalia?
«E chi può dirlo? Che io sappia, i carichi furono numerosi. La Somalia
divenne la nuova pattumiera, nonché il Paese di destinazione di diverse
partite d’armi. So, ad esempio, di un container di armi caricato su una nave
in partenza da Ravenna, diretta in Somalia. Me lo raccontò Spada. Parlando
più in generale, devo dire che spesso questi "affari" potevano avvenire
grazie al coinvolgimento di mafiosi che garantivano protezione e,
all’occorrenza, lavori sporchi».

C’è sempre un patto con qualche clan mafioso?
«Spesso. So che alla Somalia, ad esempio, sono sempre stati molto
interessati i calabresi, mentre – parlando delle spedizioni dirette nell’Est
europeo – Bizzio fece esplicito riferimento alla mafia, in particolare al
clan Iamonte».

Lei ha mai avuto contatti con mafiosi?
«Una volta ho assistito a un’operazione di carico di armi e rifiuti nel
porto di Amburgo insieme a un certo Licata, soprannominato Cacao, uomo che
Spada definiva potente, legato al clan mafioso dei Fidanzati. Erano sei o
sette container, trasportati da camion con targa americana. Su tre navi
furono caricate armi e sostanze estremamente pericolose, che successivamente
Spada specificò essere radioattive. Nel trasbordo, i container furono
trattati con molta attenzione. Era presente un terzo uomo, tedesco, di cui
non ricordo il nome, e che non rividi mai più. Licata era implicato anche
nel "Progetto Urano", non so a che titolo, ed era una vecchia conoscenza sia
di Spada sia di Bizzio».

MOZAMBICO ULTIMA PATTUMIERA

Lei ha già citato numerosi Paesi, coinvolti a vario titolo nei traffici: ce
ne sono altri?
«La Libia, anche se al riguardo non so molto. Una volta ci fu un problema
circa la destinazione finale di tre navi. Continuavano a girare per i porti
del Mediterraneo ed erano arrivate in acque italiane, toccando Venezia e
Monfalcone. Dapprima Bizzio tentò (inutilmente) di convincere il Governo
libico a permettere il seppellimento dei rifiuti nel suo territorio. Alla
fine, i rifiuti vennero gettati in mare al largo della Libia, sulle cui
spiagge finirono diversi bidoni, inquinandole. Tripoli si adirò, perché non
voleva essere trasformata in una nazione-pattumiera. Bizzio intimò a Spada
di risolvere la questione. Spada, a sua volta, chiamò un uomo politico
italiano di primo piano e gli disse che c’erano problemi con la Libia. Dopo
neanche mezz’ora, arrivò nell’ufficio di Spada, in via Bagutta a Milano, un
signore che non conoscevo. Mi dissero in seguito che si trattava di un noto
esponente massone. Quando se ne andò, Spada mi consegnò una busta chiusa,
gonfia di non so che cosa, da consegnare all’ambasciata libica, a Roma».

Ricorda i nomi di alcune società utilizzate dal "gruppo"?
«Per i traffici con Haiti fu impiegata la Bauwerk, con sede in Lichtenstein
e filiale a Monrovia, in Liberia. Per il "Progetto Urano" la Instrumag, di
Lugano; per altri affari usarono la Bidata, sempre di Lugano. Conosco Bizzio
dal 1985: i miei ultimi incontri con lui si sono svolti nella sede della
Colombo finanziaria, a Lugano».

Lei ha detto che in Mozambico i traffici sono ancora in corso...
«Sì. Ritengo di sì. A circa 60 chilometri da Maputo, il nostro gruppo ha la
concessione da parte delle autorità mozambicane di un terreno di 150 ettari,
dove c’è un’ex cava di bentonite. Un’area immensa».

Come può affermarlo?
«Perché, d’accordo con la magistratura, ho ripreso a collaborare con
l’organizzazione. Sono uno dei quattro soci della International waste group
Europe, Iwg Europa, la società madre con sede legale a Dublino, in Irlanda,
che ha l’esclusiva per tutte le spedizioni in partenza dal Vecchio
Continente. Gli altri soci, con il 25 per cento ciascuno, sono Nickolas
Bizzio, l’argentino Luis Ruzzi (direttore di una clinica privata romana e
consulente dell’ambasciata argentina in Italia) e il finanziere svizzero
Diego Colombo. Operano anche altre due società: l’Iwg Argentina e una sua
controllata, la Iwg Mozambico. Il 30 per cento di quest’ultima è proprietà
dell’Amodel Lda, l’agenzia statale mozambicana chiamata a occuparsi dello
sviluppo del Paese».

Cosa accadde?
«Tra il 1997 e il 1998, d’accordo col Pubblico ministero, avevo messo il
gruppo in contatto con uno smaltitore di rifiuti italiano. Si intavolò una
trattativa che andò avanti per mesi. Era tutto pronto, compresa una
fidejussione bancaria di 80 miliardi, che il gruppo aveva reperito senza
incontrare grosse difficoltà. Con questo stratagemma, Bizzio e Ruzzi
dovettero mettere sul tavolo tutte le credenziali: presentarono i documenti
di concessione della discarica, i permessi del Governo mozambicano, le foto
del porto e quelle della cava di Maputo. Tutta l’organizzazione mozambicana,
mezzi e personale, mi risulta tuttora attiva. E costa diversi milioni di
lire al mese».

Sa cosa doveva finire nella discarica di Maputo?
«Per aprire la strada si doveva mandare qualche nave con polverino di
acciaieria, un tossico nocivo non particolarmente pericoloso. Furono presi
contatti con un commercialista di Roma, che diceva di poter procurare un
contratto con la Montedison per lo smaltimento di filter coke, filtri per la
raffinazione del petrolio. Sono in possesso di un fax che spiega tempi,
quantità e prezzi. Ma il vero business doveva venire dopo: col materiale
radioattivo. Su quello, il gruppo avrebbe guadagnato decine di milioni di
dollari. Non so com’è finita l’intera vicenda».

Gianpiero Sebri, perché si è rivolto alla stampa?
«Dopo quattro anni di intensa collaborazione con la Magistratura, in
coscienza ritengo giusto rompere la consegna del silenzio. Perché nonostante
l’ottimo lavoro svolto, ho l’impressione che il pubblico ministero e la
polizia giudiziaria non siano messi in condizioni di essere efficaci.
D’altronde non si può pretendere di vincere una gara di Formula 1 correndo
su vetture di Formula 3....».

Barbara Carazzolo,
Alberto Chiara
e Luciano Scalettari


E la Commissione conferma
«L’analisi dei dati emersi da due inchieste tuttora in corso presso la
Procura di Asti e la Procura distrettuale di Milano, nonché il riscontro
incrociato tra il materiale acquisito dalla Commissione e quanto già emerso
in passato, fa ritenere che i traffici internazionali di rifiuti siano
ancora in atto e che alcuni Paesi, specialmente dell’Africa, siano ancora
destinazioni "privilegiate" di sostanze pericolose».

Con una dettagliata relazione firmata dal suo presidente, il verde Massimo
Scalia, la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti
affronta a viso aperto il fenomeno degli affari illegali che arricchiscono
le ecomafie e devastano interi territori. Il documento è ora nelle mani dei
commissari: verrà votato ai primi di ottobre. Il testo – di cui Famiglia
Cristiana è in grado di anticipare i contenuti – dedica due interi capitoli
ai "traffici verso l’Africa" e alle "nuove rotte".

«Le informazioni assunte dalla Commissione riguardano attività di
smaltimento di rifiuti tossici in vari Stati del mondo e, in particolare,
l’organizzazione di spedizioni verso Maputo, in Mozambico, a partire dal
1997», è scritto. «Le attività di illecito smaltimento in quella nazione non
interessano solo l’Italia ma molti altri Paesi, anche extraeuropei,
soprattutto la Corea. Nell’ambito del progetto, un ruolo chiave viene ad
assumere un faccendiere italiano contattato proprio perché già protagonista
di spedizioni di rifiuti verso l’Africa (in particolare di 12 navi partite
negli anni Ottanta da Amburgo verso la Guinea), nonché coinvolto nel
cosiddetto "Progetto Urano". L’organizzazione si avvale di società di
copertura. I personaggi italiani coinvolti risultano essere noti a soggetti
affiliati alla criminalità organizzata».

La relazione svela i due livelli dell’operazione: quello reale, finalizzato
a smaltire all’estero rifiuti altamente inquinanti, e quello di "facciata",
fatto di documenti che sembrano assicurare il pieno rispetto della legalità
(le norme in vigore vietavano – e vietano – di smaltire rifiuti fuori
dall’Italia, consentendo al massimo, e a certe condizioni, di esportare
rifiuti già "lavorati", per essere riutilizzati).

«Da quanto emerso, l’idea degli smaltimenti illeciti in Mozambico nasce
nell’ambito di una cooperazione tra l’Argentina e la nazione africana, che
riguardava anche lo sviluppo di attività industriali nei pressi di Maputo.
L’area interessata (150 ettari, in località Boane) era stata oggetto di
attività estrattiva. Reale interesse dell’organizzazione criminale era
naturalmente colmare tale cava con rifiuti di qualsiasi tipologia,
mascherando l’operazione con il recupero dell’area».

Si sarebbe dovuto costruire un impianto tecnologicamente avanzato, in grado
di trattare, senza ricadute negative per l’ambiente e per la salute, rifiuti
domestici, industriali e ospedalieri raccolti in diverse città del
Mozambico: «In realtà, diversa documentazione, comprensiva di rilievi
fotografici sul posto, dimostra che nessun impianto è stato realizzato,
mentre c’è un’enorme discarica a cielo aperto destinata ad accogliere
rifiuti di ogni genere, provenienti da ogni parte del mondo». Il ministero
per il Coordinamento delle azioni ambientali del Mozambico scrive al nostro
ambasciatore a Maputo (la lettera è del 10 maggio 1996) proponendo, tra
l’altro, un accordo bilaterale per importare rifiuti dall’Italia onde far
funzionare un forno inceneritore, in quanto le quantità raccolte in
Mozambico non assicuravano un adeguato rendimento economico: «In realtà,
l’impianto non esisteva nel 1996, né esiste oggi». «Se non ci sono allo
stato accertamenti sull’avvenuto smaltimento illecito di rifiuti italiani a
Maputo, la documentazione acquisita dalla Commissione fa ritenere invece
come molto verosimile l’avvenuto smaltimento di circa 600 mila tonnellate di
rifiuti nel Sahara spagnolo, probabilmente nell’ambito del "Progetto
Urano"».

Analizzando i traffici di rifiuti con l’estero (si parla anche di spedizioni
dirette in Somalia e in Egitto) la relazione osserva come spesso queste
attività ne nascondano altre, anch’esse illecite, come il riciclaggio di
denaro sporco proveniente dal traffico internazionale di armi e di droga,
nonché la corruzione. Purtroppo, lamenta la relazione, a fronte di lauti
guadagni (ogni nave può fruttare 10 miliardi di lire), le pene per chi
traffica rifiuti sono risibili, mentre le attività investigative consentite
sono pressoché nulle. Vanno, insomma, riviste le leggi.

La relazione, com’è ovvio, si occupa ampiamente della situazione italiana. I
dati sono decisamente allarmanti: «Circa 35 dei 108 milioni di tonnellate di
rifiuti prodotti ogni anno nel nostro Paese vengono smaltiti in maniera non
corretta o del tutto illecita».




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